Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo
La nozione di giustificato motivo oggettivo è individuata dall’art. 3 della legge n. 604/1966 che ne indica i presupposti in ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa.
Il sindacato di merito da parte del Giudice del Lavoro in relazione alla sussistenza o meno del giustificato motivo oggettivo deve limitarsi alla verifica dell’esistenza o meno del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale quest’ultimo avrà l’onere di provare l’effettività delle ragioni che giustifichino l’operazione di riassetto, senza che il giudice possa sindacare in ordine ai criteri fi gestione dell’impresa che costituiscono espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost.[1]
E’ dato chiedersi se il licenziamento per giustificato motivo oggettivo presupponga o meno la sussistenza di uno stato di crisi aziendale. Sul punto la giurisprudenza è divisa in due orientamenti: il primo che ritiene che il giustificato motivo oggetto di licenziamento possa anche consistere nell’esigenza di una riorganizzazione del lavoro per un’apprezzabile riduzione dei costi di impresa e sia subordinata all’esigenza di un’utile gestione dell’azienda o in ogni caso di una sfavorevole situazione economica che comunque deve essere provata dal datore di lavoro[2].
Un secondo orientamento afferma invece che le ragioni inerenti l’attività produttiva possano derivare anche da riorganizzazioni o ristrutturazioni quali ne siano le finalità e quindi comprese anche quelle dirette al risparmio dei costi o all’incremento dei profitti[3].
Affinchè il datore di lavoro possa legittimamente procedere al recesso, è necessario che risulti ineseguibile l’attività svolta in concreto dal prestatore di lavoro e che non sia possibile assegnargli mansioni equivalenti ai sensi dell’art. 2013 C.c.. ed eventualmente inferiori, in difetto di altre soluzioni, per la ravvisata prevalenza di esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro su quelle di salvaguardia della professionalità del prestatore[4]. Secondo la Suprema Corte, il principio in questione può essere applicato alle fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, stabilendo che il necessario consenso del dipendente ad essere adibito allo svolgimento di mansioni inferiori possa essere ricavabile dallo svolgimento di rapporto di mansioni promiscue, alcune delle quali inferiori rispetto a quelle di assunzione.
Tecnicamente per “repechage” si intende la ricollocazione del lavoratore all’interno dell’unità produttiva: il D. lgs. n. 81/2015 ha riformulato l’art. 2013 del Codice Civile di tal che, ai fini dell’assolvimento dell’obbligo di repechage, il datore di lavoro è tenuto a dimostrare l’indisponibilità di posti di lavoro di livello corrispondente a quello in cui è inquadrato il lavoratore. Scompare, pertanto, nel novellato testo dell’art. 2013 C.c. il riferimento alla categoria dell’equivalenza, con la conseguente introduzione di una maggiore flessibilità nell’utilizzazione orizzontale del dipendente. Il datore di lavoro non può limitarsi a proporre al lavoratore mansioni riconducibili a un livello professionale inferiore ai fini della valutazione dell’assolvimento dell’obbligo di repechage, ma al contrario occorre che il datore di lavoro verifichi concretamente la possibile ricollocazione del lavoratore in mansioni equivalenti,
Il datore di lavoro, ai fini dell’assolvimento dell’obbligo di repechage deve provare di non essere stato nelle condizioni di adibire il lavoratore ad altre mansioni: un primo orientamento[5] afferma che la prova dell’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni non deve essere intesa in modo rigido dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage con mansioni diverse e anche inferiori a quelle originariamente svolte, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali il lavoratore poteva essere utilmente collocato, con la conseguenza che il datore di lavoro dovrà provare l’inutilizzabilità del lavoratore nei posti predetti.
Un orientamento più recente[6] stabilisce che l’onere della prova circa l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza è posto a carico della parte datoriale, escludendo ogni diversa incombenza in capo al lavoratore. Questo orientamento è basato sul c.d. “principio di vicinanza della prova” che trae fondamento nel fatto che solo il datore di lavoro può avere accesso al quadro complessivo della situazione aziendale e, pertanto, è in grado di sapere se e come il lavoratore possa essere utilmente ricollocato.
[1] Cass 14 Maggio 2012 n. 7474
[2] Cass. 24 Giugno 2015 n. 13116 – Cass. 16 Marzo 2015 n. 5173 – Cass. 23.Ottobre 2013 n. 24037- Cass. 24 Febbraio 2012 n. 2874
[3] Cass. 26 Aprile 2018 n. 10140 – Cass. 21 Luglio 2016 n. 15082 – Cass. 1° Luglio 2016 n. 13516.
[4] Cass. SS.UU. 7 Agosto 1998 n. 7755.
[5] Cass. 12 Agosto 2016 n. 17091
[6] Cass. 12 Gennaio 2017 n. 618 – Cass. 5 Gennaio 2017 n. 160 – Cass. 22 Novembre 2017 n. 27792